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Bastano 5 euro per comprare un centinaio di like a un post, mentre con 20 euro al mese si possono acquistare software di automazione per la #SEO che generano un traffico che sembra quasi umano: migliaia di utenti che cercano sul web le parole chiave che ci interessano, entrano sul nostro sito e, dopo averlo girato quanto basta, convertono.
Come possiamo fidarci dei risultati delle nostre stesse campagne? La risposta potrebbe sembrare banale: se aumenta il mio fatturato sto andando bene, in caso contrario sto andando male. Ma la realtà è tutt’altra cosa, ecco perché è necessario fare chiarezza sulla questione #KPI.
Come misurare correttamente le performance di marketing
Non tutte le campagne di #digitalmarketing generano monetizzazione tracciabile immediata. Al contrario, un piano di marketing efficace è strutturato su diversi livelli, articolato nel tempo e orientato a una crescita consolidata. Nel caso di attività cosiddette “spot”, ovvero esternalizzate ad agenzie per lo scopo del singolo progetto, si tende a puntare a KPI immediati per valutarne l’efficacia.
Il problema di un tale approccio è che è incompatibile con una strategia di business: i #socialmedia, in particolare, si stanno proponendo come un luogo di “visibilità” offrendoci KPI non monetizzabili:
- impressions
- engagement
- followers
- reach, etc.
La fame di crescita spinge le aziende a cercare agenzie creative che ci offrono programmi di awareness che ci portano tanti followers nella convinzione che siano persone vere e che sia quindi un vantaggio.
Il problema è prendere delle decisioni in base a questi dati: non c’è modo di filtrare ciò che è “vero” da ciò che è “finto”.
Vediamo magari che un determinato prodotto ottiene più interazioni allora decidiamo di spostare del budget per investirci sopra ma poi aumenta solo l’engagement e il fatturato piange. Se poi l’agenzia ci mette sopra quei 100 200 likes comprati per cercare di viralizzare il prodotto va a finire che stiamo di fatto investendo su dati falsati. Si tratta di un caso estremo, per quanto comune, ma queste cose possono succedere anche senza andarcele a cercare: si stima che i bot siano il 5% di Twitter ma questo dato non tiene conto dei cosiddetti #sockpuppets (non bot ma account anonimi multipli manovrati dalla stessa persona o gruppo di persone) che sono innumerevoli e la cui attività non è “reale” ma interessata e orientata a obiettivi precisi.
Attenzione ai dati falsati anche nella SEO
Lo stesso discorso vale anche per canali più tradizionali come la SEO: è sempre più comune vedere servizi di posizionamento sui motori di ricerca a costi irrisori che offrono risultati in tempi rapidissimi. Il problema è che utilizzano o sistemi automatizzati di creazione contenuti o sistemi automatizzati di bot che compiono operazioni utili al nostro posizionamento SEO.
A volte ci viene detto esplicitamente che lo scopo è quello di usare questi software inizialmente per lanciare il sito e poi si smette quando il sito vive di vita propria. In altri casi non ci viene detto e, al contrario, ci vengono proposti progetti orientati al puro posizionamento di un determinato set di parole chiave. Tutto questo, purtroppo, non ha una rilevanza se non fine a sé stessa: le parole chiave erano quelle giuste? La mia azienda ha avuto un vantaggio da questo tipo di lavoro? O, al contrario, si è creato un meccanismo di dipendenza da questi software perché se li stacchiamo perdiamo traffico (inutile)?
La soluzione? Fare perno su KPI non influenzabili
La soluzione non deve essere quella di tornare agli anni ’90 ma semplicemente bisogna costruire piani strategici su KPI o indicatori che non siano influenzabili e, soprattutto, che non siano autoreferenziali.
Il traffico in sé è inutile, parliamo di traffico in #target. I follower su un canale social non hanno altro scopo che quello di fare “bella figura” con l’utente di passaggio che sta considerando i nostri prodotti o servizi. D’altro canto, i dati che analizziamo tutti i giorni per valutare lo stato delle nostre azioni o per pianificarne di successive vengono costantemente inquinati rendendoci più difficile prendere decisioni informate e lucide sulla nostra attività.
Per evitare di cadere in questa trappola bisogna costruire percorsi di conversione, ovviamente sempre basati sui dati raccolti, che non facciano riferimento a KPI effimeri o cosmetici.
- Le parole chiave non devono essere scelte a monte ma valutate in base allo storico dei dati.
- I lead sono tali solo se sono qualificati.
- La visibilità non è nulla se il pubblico non è in target.
- Una conversione non è utile se costa più di quanto ci fa guadagnare.
- Se un’attività non è scalabile o replicabile non è rilevante.
Nell’epoca della #BusinessIntelligence dove possiamo raccogliere e analizzare qualunque dato sulla nostra azienda non ci deve essere spazio per la #FOMO (Fear Of Missing Out) perché volendo a tutti i costi essere presenti sui vari canali si finisce per avere non solo una pericolosa dispersione di risorse ma, soprattutto, si inquinano i dati e si procede alla cieca.
Un buon analista sa come eliminare il noise per costruire un percorso di conversione che si concentri su ciò che ha valore eliminando tutto ciò che crea confusione focalizzandosi sull’unica cosa che importa: aumentare le entrate in modo solido e sostenibile.
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